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Un grande del passato, mancato un anno fa, Ettore Mo, in un’intervista, una volta, disse una di quelle cose apparentemente semplici ma che sono fatte per restare scolpite nella memoria di chi le ascolta: parlò di «treno del dolore», del fatto che chi ci sale non riesce più a scendere, del fatto che gli inviati di guerra, una volta saltati su quel convoglio, ci passano la vita intera.

Mo lo dice, con quell’aria sorniona, con lo sguardo evasivamente, costantemente oltre: quello di chi, nella vita, fa qualcosa di poco impiegatizio. Dice esattamente, anzi, «le rotaie della disperazione umana». E poi, alla fine dell’intervista, sempre con la solita pregnanza e puntualità dei maestri (che dicono le stesse cose che potrebbe aver detto chiunque come se non le avesse mai dette nessuno), conclude: «Non è che posso prendere un altro sentiero adesso», e aggiunge, «scatta un certo meccanismo per cui non siamo più gente da picnic».

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Il treno da cui non si scende

Mo è stato giornalista una vita, è rimasto giornalista: non è mai sceso da quel treno (forse davvero è impossibile scendere). Treno, non a caso. Il treno è la necessità di uno sguardo lento: Franco Cassano ne Il pensiero meridiano diceva che bisogna «farsi lenti come un treno di campagna»; Tiziano Terzani – complice la profezia di Un indovino mi disse – per un anno intero smette di volare (lui che raccontava di «aver abbandonato l’autostrada», che aveva vissuto «guardando i fiori da un cavallo in corsa»). E, tornando a Mo e ai suoi reportage, il treno è quel guardare e toccare le cose da vicino dopo averci volato sopra una vita, dopo aver corso e percorso chilometri («Non sono gli anni, sono i km», diceva Indiana Jones).

Reporter di pace

Tra le tante cose storte di questo mondo veloce che abbiamo intorno, la figura del reporter di guerra (ma non solo) resta fondamentale. Alcuni si ritrovano questa etichetta e si sentono invece solo reporter di pace e si muovono alla ricerca di storie e volti da raccontare per fungere da cassa di risonanza per gli sconfitti, i dimenticati, i senza voce, i margini del mondo: il giornalismo crea ponti, diceva Terzani, scomparso venti anni fa. Illuminante e lungimirante nelle sue riflessioni, in quel suo «pensare nuovo» che ancora non riesce a invecchiare. È un mestiere circondato da un’aura di mistero e fascino (per quelli che non lo conoscono, soprattutto, o meglio per tutti quelli che non lo praticano).

Pericoloso e superficiale farne dei santini, un giorno; onesto, invece, guardare al loro coraggio umanissimo e pratico, talvolta picaresco (forse folle), di andare in questi posti distrutti dalla crudeltà, dal profitto, dalla pazzia. Andare per raccontare, andare per dare una voce alla verità.

«La pace è l’unica salvezza del mondo», si legge sulla quarta di Se vuoi la pace, conosci la guerra, di Nico Piro, pubblicato da HarperCollins: «un libro per ragazzi e ragazze», informa un’etichetta, in basso a destra, sulla copertina arancione. Un libro molto utile anche per gli adulti e per far capire la guerra ai ragazzi. «Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi», diceva Galileo Galilei.

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La guerra in casa

Piro è tra quei pochissimi: parla chiaro e racconta di aver portato la guerra in casa («I miei figli hanno cominciato a fare domande dopo avermi visto mettere in valigia l’elmetto e il kit di pronto soccorso, guardandomi parlare in tv da posti pericolosi, in mezzo a uomini armati, a persone ferite o che avevano perso tutto. Non è stato facile rispondere»). Non dev’essere facile spiegare ai tuoi figli dove ti porterà quella valigia pesante parcheggiata in salotto tra gli oggetti ordinari di una vita di pace; non dev’essere facile neanche spiegare loro il tuo mestiere («Credo ci chiamino “inviati speciali” perché chiamarci “giornalisti che raccontano solo brutte notizie” suonerebbe male!»).

Eppure Nico Piro, cronista scrupoloso, saggista preciso, ci riesce e lo fa con una prosa adatta a un pubblico vastissimo. Lo fa perché deve averlo punto forte il desiderio di raccontare la cosa più brutta che ha incontrato, nella sua vita, alle persone che ama di più: per proteggerle, per farle consapevoli.

Così spiega, ai ragazzi: i perché della guerra, gli oggetti (le armi); amplia i vocabolari (non solo quelli dei più giovani), fa capire: smonta l’incomprensibile e lo ricostruisce, illustra le differenze, dà senso a ogni parola e figura (i civili, i militari, i guerriglieri) e racconta anche chi ha scelto di farsi «guerriero della pace» (come Gino Strada).

L’orrore è quotidiano

L’altro libro è quello di Nora Krug, giornalista visiva, che racconta la guerra disegnandola: la scompone in piccoli attimi e dettagli e ne sdoppia il racconto in una duplice – dolorosa – prospettiva, presentando il conflitto ucraino dagli occhi di una giornalista di Kiev e di un artista di San Pietroburgo. È Diari di guerra, pubblicato in Italia da Einaudi (traduzione di Giovanna Granato): presenta l’orrore con grazia, nelle giornate diventate strisce dai colori tenui.

Anche Krug racconta di un genitore – una madre – alle prese con una guerra, vissuta in prima persona, che costringe alla fuga; racconta delle città che erano, delle case chiuse in un furgone di 7 m³ che diventeranno altre case altrove; dei colleghi morti; degli amici persi; degli incontri nelle geografie mutate dal nulla, dalla follia, dal dolore; racconta l’impotenza («A volte provo anch’io una grande rabbia e non so come sfogarmi»).

Di contro, il russo D. scrive: «Tanti russi hanno un’unica speranza per il nuovo anno: che Vladimir Putin muoia», lo scrive mentre desidera di rivedere la sua famiglia, smettere di stare in un altro paese, sapendo che il proprio ne distrugge un altro («Si dichiarano le guerre come prova di forza e di superiorità. Ai miei occhi invece la guerra è solo una prova di stupidità»).

Nora Krug sceglie di raccontare due persone: «Le esperienze individuali», scrive, «non sono mai del tutto oggettive». Lo fa perché sa che è importante «dare spazio alle narrazioni ambigue e ambivalenti». Lo fa perché non dovremmo mai raccontare senza tenere presenti persone e dettagli.

«Le narrazioni individuali offrono una comprensione emotiva e sottile», scrive ancora, forniscono altri aspetti della verità: raccontare le persone è raccontare i volti, le vite, evitare che il dolore diventi un elenco di numeri, non perdere l’“anima dei fatti”, legare la competenza e l’empatia: è la scelta di chi consuma la suola delle scarpe, accorcia ancora le distanze, cerca di combattere la news fatigue (ci si abitua alla narrazione delle guerre? Ci si abitua alla morte degli altri distanti da noi?).

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Il giornalismo vero è quello che si muove e va dove nessuno vuole andare, è quello che non sforna servizi preconfezionati d’agenzia, è quello dei grandi maestri del passato e dei professionisti di oggi che continuano a praticarlo e viverlo sulla propria pelle, in questa confusa nostra èra soffocata dall’infodemia: è quello di quelli che non sono nati per i picnic, come diceva Mo.

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