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In “Exit through the gift shop” quindici anni fa Banksy – o chi per lui (loro), chissà – rifletteva sulle dinamiche economiche delle arti alte ed altre, dalla strada ai musei e ritorno (più o meno). Ribaltiamo verso e senso di quell’uscire per mettere piede nei gift shop: micro-galassie a sé o satelliti-appendice, ecosistemi comunque in espansione in cui creatività e cliché flirtano, con merchandising e branding a passarsi la palla all’ombra del copyright. È un business non nuovo, sospeso tra specializzazione – tematica, di ‘mission’ o di contesto – e standardizzazione che in certi casi diventa franchising. Del gusto, dei budget. Per Ludovico Pratesi – critico, curatore e imprenditore nelle arti di frontiera e d’avanguardia – il paradigma per collocare la questione in prospettiva è quello anglosassone e statunitense in particolare.

“Il museo moderno nasce col MoMA negli anni ’30 – le porte a Midtown Manhattan si aprono nel novembre 1929, in piena Great Depression (ndr) – e catalizza, indirizzandone le potenzialità, l’istanza primaria di un preciso modo di concepire collezioni e collazioni: educare e informare, meravigliando per far conoscere. Lo store come proseguimento naturale di quell’impostazione istruttiva e popolare: un compendio accessibile per estendere il sapere e portarselo a casa”.

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Da questa parte dell’Atlantico, soprattutto alle nostre latitudini, abbiamo fatto pochi passi oltre il souvenir? “Il bookshop, a lungo sinonimo di gift shop, resta un ricordo di un’esperienza più che del suo portato intrinseco”. E poi le altre realtà: ex colonie – in America del Sud più che altrove, Brasile in testa – insieme a Paesi emergenti sullo scenario mondiale, come Emirati e Arabia Saudita. “Dentro ai maggiori spazi espositivi di quelle culture il negozio ha anche un ruolo di orgoglioso showcase di identità locale”, chiosa. Un marchio pure quello? “Se il museo non si fa brand allo shop rimane poco oltre il ruolo di contenitore che naviga a vista”. Partiamo dunque dal MoMA, archetipo e faro delle nuove tendenze. Il suo design store squaderna oggi un catalogo vario e vasto, ben oltre (non solo fisicamente) la sede principale: ha aperto a SoHo, Hong Kong, Tokyo e Kyoto. E online, ovviamente. Gadget e riproduzioni di opere, linee di prodotto nate da collaborazioni con artisti e poi sempre più in-house. Il design, ancora quasi soltanto moda e interni – anzi fashion e home decor (l’inglese è d’obbligo) – dà ossigeno alle finanze e crea identità un po’ ovunque. I dati sul retail museale sono scarsi e frammentati, alcune stime paiono tuttavia convergere per Stati Uniti e alcuni Paesi europei sul range 8%-12% per la quota di revenue sui bilanci complessivi. In linea con l’espansione, contenuta però stabile, delle superfici destinate agli item acquistabili.

E da noi? La cosiddetta legge Ronchey del 1993 – oltre trent’anni fa, con l’avvocato-giornalista ministro della Cultura nei governi Amato e Ciampi – ha ridisegnato il rapporto privato-pubblico nella fruizione culturale, fornendo impulsi e cornice operativo-normativa ai servizi aggiuntivi.

Iniziamo però dai Musei Vaticani, uno dei casi più interessanti: negozio fisico diluito in corner all’interno del percorso di visita, store online per un e-commerce urbi et orbi, catalogo con vasta gamma di pubblicazioni di altissimo livello costellata di pezzi sui generis: il pallone da calcio della rappresentanza calcistica vaticana, la riproduzione della chiave della Cappella Sistina, il braccialetto di sopravvivenza della Gendarmeria. Restiamo in Italia, un altro brand – absit inuria verbis, per carità – è Ferrari. Due museum store (Maranello e Modena), oltre a punti vendita in outlet & co, coi prezzi da capogiro degli ambìti ‘collectibles’: modellini in scala, caschi da gara, componenti meccaniche originali.

Il Mudec di Milano ha una linea netta e duplice: al bookshop sempre più proposte relative alle mostre in calendario – cataloghi, volumi in tema, merchandising mirato e a tempo – mentre il design store “trae ispirazione dalle collezioni permanenti (…), una wunderkammer che raccoglie oggetti nuovi e spettacolari, che sembrano uscire da un repertorio fantastico”. Per una minirassegna europea una selezione – inevitabilmente limitata, arbitraria quanto basta – che per una volta lascia l’interstizio di luoghi (e loghi) meno noti e va nei contesti metropolitani più grandi: è lì che raggio e scala dell’impresa-museo alimentano le novità.
A Basilea – la città europea con la maggior densità di musei, a quanto assicurano le istituzioni locali – per la tripletta Vitra, Tinguely, Schaulager: il primo è una cittadella del design imprescindibile (allo store vanno alla grande le repliche in miniatura dei componenti d’arredo evergreen e le ‘wooden dolls’), il secondo invita a interagire tra le sale e a prolungare l’esperienza oltre la visita.

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Lo Schaulager è uno scrigno di arti molto varie e non eventuali, un po’ deposito di opere e un po’ hub di ricerca, con volumi editi in casa: bookshop vecchia scuola ma senza patina impolverata, tutt’altro. Poi in Germania sulla scia del Bauhaus, seguendo il moderato diktat della funzionalità creativa, declinata in rigore e lungimiranza a Berlino e Weimar. Lo store del Centre Pompidou espone quanto e come ci si aspetta – non è poco, certo – ma in Francia meglio al Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée: per l’amalgama di spazi espositivi, di ristorazione e di acquisto. E per come, da dieci anni, integrano l’offerta di questi ultimi con collezioni diverse e in dialogo col territorio.
Per finire il Museo delle relazioni interrotte nella parte alta di Zagabria, a capovolgere l’idea stessa di souvenir: ricordarsi di dimenticare (prima però passare alla cassa).

 



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